IL VINO TRA SOGNO AMERICANO E REALTÀ: RIFLESSIONI A POSTERIORI IN EPOCHE COVIDDIANE

IL VINO TRA SOGNO AMERICANO E REALTÀ: RIFLESSIONI A POSTERIORI IN EPOCHE COVIDDIANE
La pandemia ci ha rubato un anno di vissuto esperienziale, costringendoci a (re)imparare ad affrontare la quotidianità in un campo d’azione più ristretto, più lento e più controllato.

In un contesto di rimuginii galoppanti, di nostalgia di “ciò che era” e, soprattutto, di “ciò che poteva essere”, è lecito che i ricordi di una vita passata riafforino alla mente, a omaggiare quanto nascosto dietro a questo limbo su cui non abbiamo alcun controllo.

La vita prima del Covid, o se preferite la vita “normale”, era diversa, più stimolante, meno soffocante. E per me quella vita era in California, tra Napa e Sonoma.
UNA VISTA DEL GIARDINO A RIDOSSO DEL COMPLESSO AZIENDALE DI CHATEAU MONTELENA
Non sono qui per parlare tecnicamente di vino , non credo di averne mai sentito la necessità, neppure fresca di laurea triennale in enologia. Ben presto ho deciso di seguire il lato più edonistico di questo settore, dedicandomi prima alla vendita diretta e successivamente spostando il mio orizzonte professionale in tutt’altra direzione. Eppure il vino fa parte di me e del mio vissuto. Per questo motivo fisso in queste righe un’esperienza che mi si è indelibilmente incisa sulla pelle, tralasciando ogni forma di nozionismo, perché lo stesso racconto del vino a Napa e Sonoma è un racconto prima di tutto esperienzale.

La differenza tra il mondo enologico del Nuovo e Vecchio Continente è lampante: come ogni cosa che contraddistingue la cultura americana, tutto ciò che ha a che fare con il vino nel nord della California è esasperato, sottolineato, assordante e scritto a caratteri cubitali. Impossibile non farsi investire, anche semplicemente camminando downtown per le strade e per le piazze di queste cittadine, dallo spirito goliardico delle sale degustazioni che richiamamo avventori a sedersi e assaggiare qualche calice, in nome dell’unica passione che sembra lecito avere in quelle zone. Non solo, le visite nelle centinaia di cantine che si erigono sui colli di queste valli, dedicano moltissima attenzione all’offrire ai visitatori un momento di benessere, in cui il vino è solo uno degli elementi dell’esperienza: visite organizzate in ogni minimo dettaglio, tour scenografici tra i vigneti, arte e accompagnamento “solido” di altissima qualità. Così l’esperienza del vino diviene un’esperienza sensoriale a 360 gradi, dove si invitano le persone a godere di ogni singolo dettaglio e a credere che sì, queste coccole sono state meritate. Sale degustazioni che diventano attrazioni, calici che diventano giostre, in una Las Vegas dei sensi dove basta sedersi ad un bancone e tutti hanno già vinto. 
L'INGRESSO DELLA TENUTA DI ROBERT MONDAVI
Escludendo rarissime eccezioni, il modello di riferimento è ad oggi ancora quello del vino denso e contratto, impregnato di frutto maturo e legno nuovo, disegnato per accomodare un palato americano più simile a quello europeo degli anni Novanta piuttosto che a quello odierno, maggiormente orientato verso le trame fini e quasi rarefatte di una produzione più naturale (reale o presunta).

Diverso è anche l’approccio al mercato, che punta diritto al consumatore finale attraverso la vendita diretta e la promozione di “wine club” esclusivi e al contempo accessibili a tutti. La ristorazione non è quasi mai il primo obiettivo. Servire pochi, selezionatissimi ristoranti è sufficiente.

Il vino mainstream del nord della California solletica più l’ego che il palato, quest’ultimo addolcito dalla capacità dell’oste di turno a farti sentire a proprio agio, mentre sciorina ripetitivamente le stesse battute, le stesse parole, gli stessi flirt commerciali, nel tentativo di vendere una o due bottiglie in più e intascarsi commissioni più alte in busta paga. Il vino della California, nato e sorretto dalle fatiche delle famiglie messicane che ancora oggi si prendono cura dei campi, è costruito da viticoltori ed enologi che vogliono trovare clienti, pensando ancora troppo poco a estrarre nel calice la combinazione di suolo, clima e cultivar che si ritrovano davanti.

È un racconto di vino incendiario, un racconto dell’industry dalla facciata felice e gioiosa, dietro la quale si nasconde una schiera di addetti alla degustazione esausti dal ricevere eserciti di clienti soddisfatti ancora prima di cominciare l’assaggio, perché la Napa e la Sonoma rappresentano già il punto d’arrivo della loro esperienza. Luoghi così magicamente instagrammabili che finiscono per far passare il vino in secondo piano rispetto al vivere e condividere la bellezza del dove e del come. Un racconto del vino che nasconde dietro sorrisi forzati la competitività tra le cantine e tra i “tasting room associate”, che lavorano per obiettivi di vendita, iscrizioni ai “wine club” e recensioni positive.
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Un racconto quasi corrotto di un mondo che dovrebbe essere invece portavoce di tradizioni, storia e culture. Un racconto molto diverso, quindi, da quello europeo, dove il vino è versato nella buia cantina di qualche (piccolo) produttore che in fin dei conti non ha poi così tanto tempo da dedicarti, dove il vino è il primo argomento di conversazione e catalizza in toto l’esperienza. Un approccio, quello del Vecchio Continente, più lento, meno adornato e talvolta spiazzante nella sua sincerità. Un approccio essenziale, quell’essenzialità che abbiamo dovuto riscoprire nel 2020, essendoci stata tolta la possibilità di adornare a piacimento il nostro quotidiano, obbligandoci a riempire da soli quel vuoto che prima ci faceva quasi paura (dai, ammettiamolo!).

E in questo contesto pandemico, riscoprire un assaggio sincero del vino versato solo per noi, per celebrare un momento, e andare quindi oltre quella che è già la tendenza nostrana della ricerca della naturalezza, credo possa aiutarci a renderci ancora più consapevoli di quanto importante siano la lentezza, la presenza e il raccoglimento per godere appieno di certi momenti sospesi, di una semplicità e di una profondità che urlano in silenzio. Un approccio alla vita che richiama un preciso approccio al calice e che mi auguro permanga anche in un’epoca post-covid.

Corinna Pernigotti